Una mattina, nell’uscire di casa per andare
a lavorare, ho notato che nella mia aiuola fuori dal cancello
c’era un ragazzo che spazzava via le foglie secche e il takataka.
Mi è sembrato strano che un africano avesse tanta coscienza
ecologica da pulire un’area privata, probabilmente lo aveva
assunto il mio vicino di casa per la giornata, per fare pulizia
tra le nostre siepi.
La vera sorpresa l’ho avuta quando sono ritornata la sera: il
ragazzo aveva allestito un chioschetto nella mia aiuola! Si
era creato un bello spazio in cui aveva costruito un banchetto
di legno, uno sgabello e delle mensole. E aveva già disposto
con cura e ordine la sua mercanzia.
“Jambo mama!” Mi saluta cordialmente.
“Jambo kijana.” Gli rispondo un po’ seccata. E poi gli chiedo
cosa sta facendo.
“Fare solo piccolo business.” E mi sorride.
“Ma lo devi fare proprio dentro la mia aiuola il tuo business?”
Lui alza le spalle, si guarda intorno e mi dice che è un bel
posto per aprire il suo negozio, perchè c’è la grande ombra
della palma che lo rinfresca, e proprio lì di fronte c’è l’ingresso
alla spiaggia pubblica dove passa tanta gente. Ed io gli rispondo
che capisco le sue ragioni, ma che sta occupando una proprietà
privata.
“Sei un abusivo, mi capisci?”
“Abusivo … nini?” Mi chiede lui perplesso.
Ma perchè dopo sette anni che vivo in Kenya tento ancora di
spiegare un concetto tipicamente occidentale ad un giovane africano
analfabeta? E mi arrendo, tanto a pensarci bene lui non mi da
alcun fastidio.
“Come ti chiami?” Addolcisco la mia voce.
“Io Geppetto falegname.”
E mi viene da ridere perchè questi africani hanno davvero tanta
fantasia: ho un amico che cambia i soldi in spiaggia ai turisti
e si fa chiamare Bancomat, un altro che fa il sarto e bazzica
spesso di fronte agli alberghi si fa chiamare Valentino.
“Vuoi comprare bello ippopotamo?” E mi mostra orgoglioso una
statuetta di legno che ha appena finito di limare.
“Ebano vero, look.” Mi dice e gratta con l’unghia il legno scuro.
Come no, penso io, lucido da scarpa autentico: conosco il vecchio
trucco.
“No, grazie Geppetto, l’ippopotamo ce l’ho già. Anche la giraffa
e tutti gli altri animali della savana.” Poi ammiro le belle
sculture che ha disposto con cura sul banchetto e gli faccio
i complimenti.
Lui mi guarda contento, poi tira fuori da un sacchetto di plastica
un piccolo busto di Pokot a cui è legato un anello di ferro.
E’ un portachiavi.
“Regalo per te. Adesso noi amici.”
“Grazie! Ma che bello!” E per fargli vedere che lo apprezzo
veramente ci infilo subito le mie chiavi di casa.
Ci salutiamo e gli auguro buona fortuna col suo piccolo business.
Qualche giorno dopo, durante una riunione di lavoro, la direttrice
nota il mio nuovo portachiavi e mi dice che le piace: potrebbe
essere una buona idea come regalo di Natale ai nostri ospiti.
Le racconto brevemente l’episodio di Geppetto.
“Arriva ogni mattina presto con due grossi sacchi in spalla.
Pulisce per bene la piazzuola, tira fuori tutte le sue statuine
e poi accucciato sullo sgabello comincia a intagliarne di nuove.
Ha molto talento, purtroppo in una settimana non ha ancora venduto
niente: i turisti vanno nei soliti negozietti in città … poveraccio.”
“Ok, aiutiamolo noi. Ordinagli quattrocento portachiavi, devono
essere pronti al massimo entro un mese.” Mi dice.
Questa iniziativa di solidarietà mi rende felice e sono certa
che anche Geppetto sarà contento della novità.
La sera rivedo il giovane falegname che ripone le sue cose dentro
il sacco. Nonostante gli affari non gli vadano bene lui è ancora
di buon umore e fiducioso.
“Jambo Geppetto, ho un lavoro per te. Mi servono altri portachiavi
Pokot. Me ne servono tanti sai?”
Gli si illuminano gli occhi e mi invita a sedermi sullo sgabello,
per fare meglio il business, e lui si accuccia per terra.
“Certo mama, quanti?” Mi chiede speranzoso.
“Quattrocento.” Gli scandisco bene il numero, e glielo ripeto
in swahili.
Geppetto resta a bocca aperta e si gratta il mento, credo di
averlo scioccato. Poi deglutisce e mi dice che forse io intendevo
dire quaranta.
“No rafiki, ho detto proprio quattrocento. Li puoi fare? Mi
servono entro un mese. Ma devono essere tutti belli come il
mio, ok?”
Geppetto è al settimo cielo e salta in piedi come un grillo
e mi ringrazia in diverse lingue. E mi benedice pure, neanche
fosse un prete. Gli do un acconto per comprare il legno e ci
salutiamo con una energica stretta di mano.
La mattina dopo mi aspetto di vederlo già all’opera, e invece
il chioschetto è deserto. Niente Geppetto nei dintorni … e anche
le mattine successive non si fa vivo. Ed io comincio a pensare
che mi ha tirato una gran fregatura: si è preso i soldi e probabilmente
è andato ad aprire il suo nuovo business nell’aiuola di qualcun
altro. Che sciocca sono stata.
E invece, che bella sorpresa, dieci giorni dopo me lo vedo lì
che mi aspetta sul cancello, con quattro borse di plastica gialle
in mano.
“Jambo mama!” Esulta felice di rivedermi.
“Geppetto! Allora non eri scappato col malloppo!”
Lui fa no con la testa e poi ridiamo insieme. E mi racconta
che è tornato al suo villaggio, dentro il bush al nord, e lì
ha assunto tutta la tribù dei suoi fratelli e cugini e zii per
fare i quattrocento portachiavi haraka sana.
“Ecco, look!” Apre le sue borse e mi mostra la merce soddisfatto.
“Bravo rafiki!” Gli batto una mano sulla spalla.
Geppetto col suo bel gruzzolo ha ingrandito il business e ha
spostato il chiosco in una piazzuola più ampia dall’altra parte
della strada. Si è pure messo in società con un pittore che
si fa chiamare Picasso e tutte le mattine quando vado al lavoro
li vedo all’opera.
Ultimamente sta intagliando piccole tartarughe, mi ha detto
che gliene hanno ordinate oltre cinquecento pezzi.
“Bravo! E le fai tutte da solo stavolta?”
“No mama, domani arrivare fratelli e cugini per dare piccolo
aiuto.”
“Bene, avrai un po’ di compagnia, e quanti sono?”
“Trenta.”
Mi sa che ho capito male … trenta Geppetti che fanno tartarughe
in un’aiuola? Mah, però a pensarci bene qui in Africa tutto
è possibile.
Claudia Peli (Malindi, 19/10/2009)
|